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Intervista ad Andrea Maggiani, di Emanuele Bompan

Originale sul magazine Europa di Materia Rinnovabile

L’Emissions Trading System dell’Unione europea è il più grande mercato del carbonio al mondo ed è uno strumento fondamentale per la mitigazione climatica. Come si sta evolvendo questo settore? Ne abbiamo parlato con il fondatore di Carbonsink, importante società di consulenza per i crediti di carbonio e lo sviluppo di strategie climatiche.

L’EU ETS, o Emissions Trading System, è una pietra miliare della politica dell’UE per il contrasto al cambiamento climatico e il suo strumento chiave per ridurre le emissioni di gas a effetto serra in modo efficace sotto il profilo dei costi. È il primo e tuttora il più grande mercato del carbonio al mondo. Per comprendere le evoluzioni di questo settore, Materia Rinnovabile ha intervistato Andrea Maggiani, fondatore di Carbonsink, società di consulenza per lo sviluppo di strategie climatiche e di progetti che generano crediti di carbonio, oggi parte del gruppo South Pole, dove Maggiani è Global Tech Strategy Director.

Quale è lo stato del mercato del carbonio in Europa?

Il prezzo della CO2 l’anno scorso ha raggiunto i famosi 100 euro a tonnellata, raggiungendo l’obiettivo che economisti come Stiglitz e Stern avevano previsto. Nonostante la forbice di prezzi, è arrivata la conferma che il costo della CO2 può arrivare a dei livelli veramente importanti. È un segnale significativo per il mercato, anche per quelle imprese escluse dall’ETS.

Con la guerra c’è stata però turbolenza sul mercato.

Con tutti i meccanismi di aggiustamento che sono stati creati in questi anni sull’ETS, è un mercato che comunque regge. Nonostante la guerra, non è crollato come nel 2008, quando toccò un valore di 8 euro a tonnellata. Siamo entrati in un mercato maturo, che riesce a gestire le fluttuazioni, e la guerra ne ha dato un chiaro riscontro. Siamo in una fase di rally, il prezzo della CO2 continuerà a crescere. Più attori vi operano, meglio funziona il mercato. L’ingresso del settore del trasporto marittimo nel 2024 è un ottimo segnale e già si parla di includere l’intero comparto dei trasporti. Più si allarga, più si rende questo mercato funzionale e liquido, permettendogli di operare in maniera sempre più efficiente.

L’altro grande tema saranno i Carbon Removal Credits (CRCs), nuove certificazioni per tecnologie innovative per la rimozione del carbonio e soluzioni sostenibili utili per gli obiettivi di neutralità climatica. Vediamo che queste certificazioni presto potrebbero partire nell’ambito dell’agricoltura (con il carbonio stoccato nel suolo) per poi estendersi ad altre tecnologie di rimozione dell’anidride carbonica. Sarà da capire come ciò si collegherà con l’ETS. Oggi tutte le aste finiscono in un fondo dedicato all’innovazione per la decarbonizzazione. La domanda però è: potranno le aziende utilizzare questi certificati sulla rimozione della CO2, nell’ETS?

In che modo i mercati del carbonio globali sono influenzati dai negoziati sul clima, come la COP27?

L’articolo 6 (si tratta dell’articolo dell’accordo di Parigi inerente alla finanza climatica, in particolare ai mercati del carbonio, ancora incompleto nell’attuazione, nda) ha fatto qualche piccolo passo avanti, soprattutto per quello che riguarda le regole di funzionamento negli accordi bilaterali tra Paesi (art. 6.2) e nel nuovo mercato volontario (art. 6.4) che dovrebbe sostituire i CDM (Clean Development Mechanism). Ma prima di fare progetti di sviluppo sostenuti da questo “nuovo CDM” ci vorrà ancora tempo. In generale mancano ancora le regole del gioco a livello globale, anche se il campo inizia ad essere delimitato. La ragione di questa fatica è che ci sono molti interessi economici. Dunque determinare se un progetto può essere sostenuto dai crediti di carbonio o meno può fare una grande differenza. La strada è ancora lunga e per arrivare ad una vera svolta dovremmo probabilmente attendere ancora un paio di conferenze globali sul clima.

Per le imprese europee l’uso del meccanismo dell’art. 6.4 potrebbe essere un’opportunità?

Solo con una revisione dello stesso ETS che permetta l’utilizzo di strumenti di mercato per la compliance. Al momento non c’è questa opzione. Però con le certificazioni di rimozione del carbonio (CRC) che sta creando l’Europa, si sta testando una sorta di credit system domestico collegabile all’ETS, che potrebbe aprire la strada a soluzioni per collegare i nuovi CDM con l’ETS. Le aziende europee possono però beneficiare in maniera operativa dell’articolo 6.4 in ambito volontario.

Che impatto avranno invece i Carbon removal credits sull’agricoltura europea?

Un impatto positivo, a patto che si crei un mercato in cui si parli di addizionalità, in un contesto dove il settore agricolo già riceve tantissimi sussidi e finanziamenti per la conversione da agricoltura classica tradizionale ad agricoltura rigenerativa. Inoltre quello europeo non è un mercato dove facciamo un’agricoltura molto intensiva, molto inquinante. Tuttavia in quei segmenti dove, se implementato bene, il sistema dei carbon removal credits offre riduzioni addizionali di emissioni, è sicuramente una fonte aggiuntiva di reddito per il mondo dell’agricoltura, oltre che un contributo tangibile per il clima. Sicuramente potrà creare delle connessioni importanti nella supply chain, con progetti di filiera dove, ad esempio, l’azienda di trasformazione food genererà, insieme agli agricoltori, strategie di rimozione di CO2 da usare per raggiungere i propri target di decarbonizzazione. Si svilupperanno così diverse classi di commodities alimentari a seconda dell’intensità carbonica della filiera (low carbon commodities).

Si potranno ottenere in futuro crediti sulla rigenerazione di ambienti naturali vocati ad essere carbon sink? Ad esempio per azioni come il rafforzamento del suolo e della biodiversità forestale o la protezione delle torbiere?

I crediti tipicamente vengono generati ex post, quindi quando la riduzione o la rimozione è avvenuta. Ci sono però aziende che ragionano più sul lungo termine e vogliono investire in progetti che genereranno questi crediti certificati in futuro. Sono di fatto contratti forward: tu compri una posizione oggi per qualcosa che verrà generato tra un tempo x, permettendo di finanziare progetti di rigenerazione naturale, rimozione o altro. Questo sarà fondamentale per quelle aziende che si sono date obiettivi di emissioni nette zero al 2030 o al 2050 e che quindi devono iniziare ad impegnarsi oggi sia per ridurre le emissioni della loro filiera, sia per rimuovere le emissioni residue che rimarranno nel 2030 o 2050.

Torniamo all’Europa, che altro ha messo in campo nei mercati del carbonio?

Il Carbon Border Adjustment Mechanism va a toccare il tema del green premium. Per le regole stringenti sulle emissioni che l’Unione ha imposto, molte aziende affrontano costi associati alle emissioni che impattano sulla competitività del loro prodotto: pensiamo alla ceramica, all’acciaio, al cemento. Oggi con la CBAM esiste un meccanismo, che non è altro che una tassa doganale, che va a influire sui prodotti venduti in Europa e che hanno beneficiato di un regime regolamentare favorevole sulle emissioni nel loro Paese.

La CO2 rimane uno dei sistemi di rating per l’ESG più accurati, come evolverà?

La CO2 è uno dei parametri che più di tutti ha permesso al mondo degli ESG di avere dei valori quantitativi. Questo è chiaro perché sulle voci “Social” e “Governance” il dato quantitativo è al momento meno presente.

Storicamente il principale rating impiegato è il CDP (ex-Carbon Disclosure Project), che è stato il primo – prima ancora che nascessero i ranking ESG – a fare disclosure dell’impatto ambientale delle aziende, chiamando quindi le società quotate a misurarsi e a valutare la maturità della propria strategia climatica.

Gli strumenti di rating sono validi, ma dovrebbero evolvere – e stanno già andando in quella direzione – per misurare l’azione climatica e non solo l’ambizione. Infatti il rischio attuale è che aziende di settori molto emissivi possano avere un rating “A” sul clima, grazie a un ottimo lavoro di rendicontazione e obiettivi molto ambiziosi, magari gestiti da un team dedicato, mentre aziende meno emissive ma meno ambiziose, spesso non soddisfano tutti i requisiti della checklist, ottenendo un rating più basso nonostante il loro impatto sul clima sia minore.

Come uscire da questo paradosso per garantire una valutazione reale delle aziende quotate in borsa e sostenere il mercato finanziario?

Usare altre metriche centrate soprattutto sull’impatto climatico, come i Science Based Target, può dare una visione dell’azione reale, in modo da capire quali imprese sono veramente in linea con i target, quante aziende stanno decarbonizzando, quali sono i valori di investimento legati ad un impegno reale. È un tema da affrontare con urgenza.